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C’è chi parla d’arte… ma è solo un videogioco

di Redazione Hynerd.it

Pubblicato il 2018-04-24

Una recente dichiarazione di Josef Fares (autore di Brothers – A Tale of Two Sons e di A Way Out) ha riacceso la disputa, da tempo ricorrente, se i videogiochi possano essere paragonati a vere e proprie opere d’arte. Una considerazione forte, dunque, ma che sottolinea gli enormi passi da gigante che il medium in …

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Una recente dichiarazione di Josef Fares (autore di Brothers – A Tale of Two Sons e di A Way Out) ha riacceso la disputa, da tempo ricorrente, se i videogiochi possano essere paragonati a vere e proprie opere d’arte. Una considerazione forte, dunque, ma che sottolinea gli enormi passi da gigante che il medium in questione ha compiuto, diventando, da una semplice forma di intrattenimento, qualcosa di molto più profondo, di più coinvolgente.

Infatti non c’è più alla base solo la volontà di regalare un’avventura con cui passare del tempo divertendosi, ma anche di ricreare contestualmente un ambiente in cui si possa sentirsi partecipi, in prima persona, di una storia che tocca in profondità i sentimenti emozionando, commuovendo e catturando di continuo l’attenzione.

La bellezza, quindi, di un videogioco, a mio parere, non si dovrebbe come spesso avviene ricercare in una grafica mozzafiato, ma, soprattutto, dovrebbe rispondere, come si è detto, a quei canoni che hanno il loro punto di forza nella capacità di saper raccontare e trasmettere magistralmente un racconto in cui il giocatore ne diventa parte attiva, cioè uno spettatore che sa coglierne in tutto per tutto lo spirito di chi lo ha ideato.

A testimonianza di quanto detto, non mancano titoli di videogiochi prodotti sia da grandi software house sia da piccoli studi indipendenti che hanno ricevuto riconoscimenti prestigiosi: per esempio What Remains of Edith Finch ha trionfato ai BAFTA 2018, aggiudicandosi il titolo di gioco dell’anno e Hellblade: Senua’s Sacrifice è stato nominato nella categoria Best Narrative ai The Game Awards 2017 e ha vinto il premio Best Writing in a Video Game ai Writers’ Guild of Great Britain 2018.

Di parere, però, nettamente contrario è stato, tra gli altri, Roger Ebert, critico cinematografico statunitense e vincitore del premio Pulitzer per la critica nel 1975, il quale in un suo articolo apparso sul suo sito nel 2010, ha sostenuto la tesi secondo la quale un videogioco non può e non potrà mai essere considerato alla stessa stregua di una qualsiasi forma d’arte.

Infatti egli ha sottolineato come il concetto d’arte sia qualcosa di ben diverso da quello che si vorrebbe far intendere e porta a favore della sua riflessione la testimonianza del pensiero filosofico e le modalità con cui fin dall’antichità ci si è avvalsi per dar vita ad un’opera d’arte, partendo addirittura dalle pitture rupestri.

Due concezioni di arte diametralmente opposte: una di rottura degli schemi convenzionali, aperta a nuove prospettive, l’altra ancorata, invece, ad una visione tradizionale, statica, poco incline al rinnovamento e che difficilmente entrambe potranno trovare tra loro una qualche forma di compromesso.

Tuttavia ho un dubbio: non se oggi Ebert sarebbe ancora, però, dello stesso parere, vista l’evoluzione che nel frattempo il videogioco ha subito sia nella narrativa che nella costruzione di personaggi sempre più reali e con una propria “vita”!

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